lunedì 19 marzo 2018

Virginia Manaresi, una grande maestra di vita

Alla fine dell'incontro Virginia Manaresi, 94 anni e un carisma impressionante, ha svelato ai ragazzi presenti di essere stata rimandata in "Storia, geografia e cultura fascista", ma a giudicare da quello che abbiamo sentito oggi, direi che un grande peso l'ebbe in quel frangente solo la "cultura fascista", alla quale lei non si volle uniformare.
Oggi "Gina", è stata una grande maestra di storia e, soprattutto, di vita per i ragazzi del Ciofs e per la III C del Sante Zennaro, che nella Sala della Consulta hanno dato vita a una bellissima lezione insieme e senza barriere.
Virginia Manaresi ha insegnato a tutti come ci si debba battere per i valori e gli ideali in cui si crede, come rimanere sempre umani e come non lasciarsi andare mai alla disperazione.
Anche nei momenti più bui. Anche quando non sei più una persona, ma un numero: l'8.008...

Partiamo dagli anni '30. Come era la vita prima della guerra?
<Mancava tutto. Dal pane al vino, fino all'olio. Per condire l'insalata ne avevamo un goccino che mettevamo in una bottiglia riempita d'acqua. Avevamo anche la tessera annonaria, che ci permetteva di avere qualcosa, ma a patto di stare in fila un giorno intero>.

E le case come erano?
<Noi non avevamo corrente elettrica. Diciamo che non avevamo il problema delle bollette da pagare ma, a parte questo, non c'erano molti aspetti positivi. Non avevamo acqua corrente e se dovevamo bere, lo facevamo tutti dallo stesso mestolo. Di tanto in tanto penso a quanti problemi ci si fa oggi per bere dallo stesso bicchiere...>

A un certo punto tu trovasti lavoro...
<Negli Anni '40 erano gli uomini ad essere impegnati in Ferrovia, ma a un certo punto vennero chiamati alle armi e si dovette bandire un concorso per trovare nuovo personale. Io lo vinsi e iniziai a lavorare. Ero lì anche l'8 settembre del 1943 quando un Tedesco mi prese per l'orecchio chiedendomi perchè sorridessi felice. Io mi salvai, facendogli notare che quel giorno c'era un gran sole...>

Di lì a poco sarebbe cominciato il tuo impegno nella Resistenza.
<Venni avvicinata da Elio Gollini, che già conoscevo. Portavo medicinali, messaggi e materiale bellico. Lo facevo in bicicletta. All'epoca anche solo per girare in bicicletta era necessario il permesso, ma io lo ottenni in modo un po' rocambolesco. I Tedeschi ci avevano sequestrato un baule di biancheria e ci avevano dato un biglietto con il quale ci saremmo potuti far risarcire. Io andai al Comando Tedesco, dove mi dissero che il risarcimento sarebbe arrivato solo al termine della guerra. Mi mostrai molto delusa e loro mi diedero il permesso per andare in giro in bici per tirarmi su il morale>.

Come facevi a portare il materiale senza insospettire i nazifascisti?
<Avevamo creato delle borse con un doppio fondo. Sopra al materiale, poi, mettevamo del bucato sporco, in modo tale che non venisse voglia di rovistare dentro>.

Pedalare per chilometri e chilometri, comunque, non doveva essere facile...
<No, non lo era. A maggior ragione perchè non avevamo i copertoni, ma dovevamo avvolgere le camere d'aria attorno alle ruote delle bici>.

Ti sei adoperata anche in azioni di sabotaggio, vero?
<Sì. una volta andai con un partigiano chiamato Wilson alla scuola di Pontesanto che era stata occupata dai Tedeschi. Avevano attaccato i fili ai lampioni della strada e noi volevamo tagliarli, ma a un certo punto arrivò un Tedesco a chiederci cosa volessimo. Wilson, per tutta risposta, iniziò ad accarezzarmi e a abbracciarci e fu talmente convincente da fargli pensare che fossimo una coppietta che aveva semplicemente scelto il luogo sbagliato. La sua prontezza ci salvò>.

Altri episodi che ti sono rimasti impressi?
<Una volta dovevo svolgere una missione che prevedeva una parola d'ordine. Dovevo passare del materiale a una donna che era seduta lungo l'argine di un fosso ed effettivamente dopo un po' ne vidi una, ma non fu comunque facile dirle "Sei Marta o Maria?". Quando lei mi rispose "Sono Marta" tirai un sospiro di sollievo, pechè aveva risposto correttamente e le diedi il materiale>.

Ti dedicavi anche alla stampa di materiale clandestino?
<Sì, per giorni ho battuto i testi, ma all'epoca non c'erano i computer. La macchina da scrivere faceva moltissimo rumore e, siccome nell'appartamento accanto al nostro in vicolo Giudei, c'era un noto fascista io avevo messo un tappeto per terra e un tappeto sulla parete per attutire il rumore fatto dai tasti>.

Un giorno, però, nonostante le cautele, fosti denunciata. Da chi?
<Eh sì, un giorno arrivò un conoscente a dirmi che avevano fatto il mio nome e che di lì a poco le Brigate Nere sarebbero venute a prendermi. Era stata una mia compagna di classe. Io decisi che non sarei scappata, perchè era stata una mia libera scelta entrare nella Resistenza e non volevo che i Fascisti prendessero i miei familiari, cosa che sarebbe sicuramente avvenuta, se non avessero trovato me. Sono rimasta tre giorni nella Rocca, che allora era la prigione cittadina. Ho preso più botte in quei tre giorni che nei successivi cinque mesi passati nel campo di concentramento. A volte qualcuno mi chiede cosa avrei voluto fare alla compagna che mi aveva tradita. Istintivamente l'avrei voluta riempire di cazzotti - gli stessi che avevano dato a me - ma poi, quando dopo tanto tempo l'ho rivista, ho pensato fosse meglio guardarla a lungo. Non le ho più parlato comunque>.

Cosa successe in Rocca?
<Tante botte e tanti interrogatori. Mille domande con una rivoltella puntata. In tre giorni ho cambiato sei celle e dormito due volte sul pavimento. Una volta mi stavo spogliando, quando mi presero e mi portarono nella vasca che si trovava sui camminamenti della Rocca. Per fortuna non dovetti resistere tutta la notte, perché passò Pippo che illuminò tutto, me compresa, e i Tedeschi decisero di riportarmi di sotto>.

In quei giorni ci fu però un ragazzo tedesco...
<Un ragazzo tedesco della Wermacht che cercò di confortarmi e di aiutarmi. Mi aveva assicurato che mi avrebbe fatto scappare alle 20 del terzo giorno, ma a quell'ora vennero invece a prendermi per portarmi a San Giovanni in Monte a Bologna. Mi accompagnò e pianse al mio fianco per tutto il percorso. Arrivata a Bologna, anche una suora cercò di alleviare il mio dolore, dandomi una pomata da mettere sulle ferite più brutte>.

Per qualche giorno, grazie a un equivoco, ti salvasti dalla deportazione.
<Sì. Era arrivato l'ordine di trasferire Virginio Manaresi, ma le suore ovviamente non lo trovavano. Purtroppo il problema si risolve e venni caricata su un camion che ci mise due giorni ad arrivare a Bolzano, dove c'era il campo di concentramento. Vi passai cinque mesi con un solo paio di mutande e una canottiera, perchè mia madre aveva camminato da Imola a Bologna. Si era fatta dare la mia roba per lavarla e, quando era tornata, non mi aveva più trovato perchè mi avevano già trasferita al campo>.

Come era organizzato il campo? Ti diedero la divisa appena arrivata?
<A Bolzano non c'era la divisa a righe, ma una camicia nera. La prima che mi diedero era piena di pidocchi e chiesi alla Kapò se potevo andarla a cambiare. Quel giorno era in buona e mi disse di andare in lavanderia a prenderne un'altra. Quando vi arrivai sentii delle urla terribili... Ricordo ancora di una donna sui cinquant'anni a cui tolsero tutto, tranne la camicia nera. La fecero girare nel piazzale del campo facendole cose terribili. Pare avesse una figlia che morì al campo e una nipotina che non vidi più. Sulla piccola si raccontava una storia terribile: che fosse stata buttata in aria e colpita al volo. Non ho mai saputo se fosse vero>.


Cosa facevi al campo di Bolzano?
<Lavoravo. Tantissimo. Eravamo impiegati in una fabbrica di cuscinetti a sfera e avevamo turni dalle 8 alle 20 o dalle 12 a mezzanotte. Sempre fermi. Sempre in piedi. Ci veniva dato un solo pasto al giorno che era brodaglia in cui, di tanto in tanto, si potevano trovare due o tre pezzettini di bucce di patate o qualche chicco di riso. Un giorno finsi di aver bisogno di andare al bagno, solo per sgranchirmi un po' le gambe. Quando capirono che non avevo una estrema necessità, mi riportarono al mio posto a forza di calci nel sedere>.

Una volta ci fu anche la possibilità di mangiare un uovo, ma cosa hai dovuto fare per vincerlo?
<Lavorare ancora di più e ancora più velocemente di quanto già facessi. Io volevo tanto l'uovo e vinsi, ma in modo scorretto, prendendo dei cuscinetti finiti da un'altra stanza. Quando guardai in faccia le mie compagne, mi sentii tanto in colpa...>

Poi arrivò la possibilità della fuga. Come avvenne?
<Mi dissero che alle 20 ci sarebbe stata la possibilità di fuggire se mi fossi trovata in un dato posto e io ci provai. Uscita, mi sentii toccare sul collo e mi presi paura, ma erano persone buone che mi portarono in una cantina, al sicuro. Rimasi per un po' con i partigiani della Val di Non e mi presi anche la soddisfazione di arrestare con loro un comandante delle SS. Poi feci l'autostop fino a Verona e Bologna. A Imola arrivai su una motocicletta di un portaordini che doveva andare a Rimini>.



I tuoi genitori come vissero il tuo ritorno?
<Mia madre proprio quel giorno aveva ricevuto una lettera ed era andata dalla vicina per farsela leggere. Quando lei si avvicinò alla finestra per farlo, mi vide. Allora urlò "Gina!" e mia madre svenne, pensando che la lettera riportasse la notizia della mia morte. In realtà, io ero viva, nel giardino! A mio padre, che lavorava alla Fornace Gallotti, venne riferito da un conoscente che mi avevano visto a bordo di una motocicletta. Lui tornò a casa e mi abbracciò. Era il 13 maggio. Erano passati quasi sei mesi dal giorno del mio arresto, il 29 novembre. Avevo ancora il triangolo rosso che davano ai prigionieri politici e il mio numero - il 8.008 - che era scritto sulla camicia>.

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